Criticità nella raccolta dati - preanalitica

La metodologia per processi richiede la corretta misurazione di tutti gli step. Per ottenere una metrica adeguata agli obiettivi del progetto, dobbiamo contare gli elementi (prodotti intermedi o finali) che si muovono lungo il processo.
Schematicamente il processo analitico può essere definito così:

paziente-->PRELIEVO-->provetta-->CHECK IN-->provetta-->ANALISI-->risultato

Ogni input/output (queli in minuscolo) deve essere misurato (n° di elementi per periodo) in modo da avere, per uno specifico processo, ad esempio:

10 pazienti-->PRELIEVO-->35 provette-->CHECK IN--> 20 provette-->ANALISI-->45 risultati

La misurazione puntuale dei processi consente di gestire correttamente il flusso dei costi e degli altri indicatori gestionali, che sono in gran parte guidati dal driver "quantità di output".
Nella pratica abbiamo però frequenti difficoltà, sopratutto nella raccolta dei dati relativi alle provette, perchè i sistemi informatici raramente sono in grado di fornire tali dati.

Benchmarking - Nozioni di base


Definizione


Il Benchmarking è il continuo processo di misura di prodotti, servizi e processi che consiste nel confrontare i processi, le prassi e i metodi di prodotti e servizi della propria organizzazione con quelli di altre aziende che sono considerate le migliori o leader nel mercato.

Finalità

La finalità del Benchmarking è la ricerca continua delle best practices che garantiscono all’organizzazione prestazioni superiori e opportunità di miglioramento della qualità, identificando e colmando le differenze fra le proprie prestazioni e le prassi migliori.

Vantaggi

Il Benchmarking porta i seguenti vantaggi:

 impone di fissare obiettivi validi e stimolanti;

 consente/obbliga la definizione dei processi;

 rende legittimi gli obiettivi in quanto confrontati con l’esterno;

 identifica gli elementi che rappresentano un vantaggio competitivo per l’impresa stessa;

 favorisce l’aumento della competitività dovuto a:

  •  crescita della capacità di soddisfare l’esigenze del cliente;

  • incremento della conoscenza sulla produttività effettiva delle risorse;

  • capacità di fissare obiettivi competitivi e validi;

  • adozione delle migliori prassi per lo svolgimento dei propri processi.

Struttura


Non esiste una struttura definita essendo il Benchmarking una metodologia di misurazione che può essere svolta con gli strumenti che più si adattano all’organizzazione. E’ comunque necessario spiegare che esistono vari tipi di Benchmarking, la cui distinzione è dovuta dalla diversità dei soggetti che vengono presi come termini di confronto.


I tipi di Benchmarking sono i seguenti:


 Benchmarking interno: consiste in un confronto fra parti appartenenti alla stessa organizzazione (ad esempio con filiali, distaccamenti, dipartimenti, divisioni o aziende dello stesso gruppo). Esso ha la caratteristica di godere di una facile reperibilità dei dati. Può essere la prima fase di un Benchmarking più esteso e consente di familiarizzare con il metodo.


 Benchmarking competitivo: in questo caso il confronto viene realizzato con i concorrenti diretti di un prodotto. La reperibilità delle informazioni è difficile; molte grandi aziende però hanno istituzionalizzato lo scambio di certe informazioni per il semplice fatto che anche il best performer è interessato a sapere l’evoluzione delle prassi migliori per comprenderle a fondo ed eventualmente apportare modifiche o miglioramenti.


 Benchmarking funzionale: con questo tipo di Benchmarking si vanno ad analizzare le funzioni aziendali di organizzazioni sia concorrenti che operanti in settori diversi. Esempi di funzioni aziendali che vengono confrontate sono le funzioni di evasione degli ordini, di magazzino oppure di sviluppo di nuovi prodotti, ecc.. Esso considera organizzazioni che hanno bisogni simili per processi simili, dove entrambe le parti hanno interesse a condividere informazioni e dati anche riservati.


 Benchmarking generico: è la forma più pura di Benchmarking in quanto si basa sulla valutazione di un generico processo indipendentemente dal settore dell’organizzazione best performer. Esso richiede grande capacità di astrazione perché una volta individuata la prassi migliore essa deve essere trasferita ed adottata nella propria organizzazione che svolge funzioni sostanzialmente diverse da quelle originarie.


Modalità di implementazione


Secondo C. Ciappei e G. Giusti nel libro “Il governo strategico dei processi operativi”  il processo di Benchmarking è articolato in quattro macro-fasi che sono:


 1. Pianificazione del processo, cioè:


  identificare l’oggetto del Benchmarking (che può essere un prodotto, un servizio, una funzione aziendale, un processo, ecc.);


  identificare le imprese da confrontare ovvero con chi fare il confronto:


  determinare il metodo di raccolta dati e procedere nella raccolta.


 2. Analisi del divario delle prestazioni, cioè:


  determinare l’attuale divario (gap) delle prestazioni;


  prevedere i livelli futuri delle prestazioni ovvero la tendenza del divario.


3. Integrazione delle indicazioni derivanti dal Benchmarking, cioè:


 comunicare all’organizzazione le informazioni ricavate per una loro accettazione;


 stabilire gli obiettivi delle unità operative coinvolte.


4. Predisposizione e implementazione dei piani di azione, cioè:


 elaborare i piani di azione;


 realizzare azioni specifiche e monitorare l’avanzamento dei lavori;


 ricalibrare gli obiettivi del Benchmarking rispetto alle mutevoli condizioni esterne per mantenerli sempre attuali .

Trieste… e dopo

Di ritorno dal congresso SIMeL di Trieste, ho nella mente le parole appassionate che i presidenti delle Società di Medicina di Laboratorio, e altri loro colleghi, hanno speso in difesa della professione.
Il Laboratorio non è il luogo dove si producono semplicemente dei numeri, ma la struttura a cui si rivolge il medico che ha in carico il paziente per avere una risposta al suo quesito clinico.
Queste parole esprimono un concetto forte, che è difficile non condividere, e che rappresenta una linea d’azione per una maggior valorizzazione della Medicina di Laboratorio.

Però… mi ronzano in testa dei campanelli di allarme: se questa risposta del Laboratorio, a quanti vogliono trasformarlo sic et simpliciter in un “esamificio”, sia sufficiente per convincere quelli che oggi si lasciano sedurre dal fascino perverso di “curve” come quella riportata nel grafico qui di fianco. Cosa si può rispondere alla semplice constatazione che con l’aumento dei volumi di lavoro si ottiene un’economia di scala, quasi indipendentemente da una buona organizzazione interna del servizio?
E cosa si può rispondere a chi, maliziosamente, facesse notare come l’uomo di laboratorio, per sfuggire ad una massiccia automazione, si rifà artigiano, pretendendo di trattare ogni singola richiesta come qualcosa di unico, su cui lavorare specificatamente, come se le dimensioni quantitative del lavoro lo permettessero?

Vorrei dare, da persona al di fuori dello specifico ambito professionale, un mio personale e parziale contributo a questo dibattito, senza la pretesa di fornire risposte definitive e/o ricette preconfezionate.

Io credo che tutti abbiano chiaro che non basta indicare un principio, ma occorre dare soluzioni che tengano conto delle molteplici dimensioni del problema e che esse debbano essere convincenti in primis per gli aspetti di fattibilità ed economici. Ed è un bene che lo specialista di laboratorio dichiari di voler uscire dal Laboratorio, aprendosi ad un confronto con gli altri specialisti.

E’ mia opinione infatti che la partita si giochi sul terreno delle alleanze: si difende validamente la Medicina di Laboratorio se si sanno costruire le giuste alleanze, avendo bene presente quale contributo può essere portato da ciascuna di esse.
In particolare:
o Con i clinici – essi sono i naturali fruitori del servizio, quelli che ne possono comprendere l’importanza (soprattutto nei termini di beneficio per il paziente).
o Con gli altri specialisti in diagnostica - perché se il focus deve essere sulla risposta al quesito clinico, questa risposta deve essere completa, indipendentemente dal mezzo con cui viene prodotta. Il laboratorista deve interagire con il radiologo, con l’anatomo patologo, ecc.., per fornire un servizio a maggiore “valore aggiunto”. Si pensi per esempio, al dibattito in corso sugli “integrated bio-markers”.
o Con i fornitori di informatica – perché sono loro che possono far uscire questo approccio dall’ambito artigianale e farlo diventare industriale, in una parola, fattibile. Sono loro che devono rendere il più possibile fluido, continuo e ricco il passaggio di informazioni fra clinica e laboratorio. Senza queste condizioni il dibattito rischia di rimanere sterile.
o Con gli specialisti di organizzazione – cioè con quelle persone, come il sottoscritto, che, sulla base di un proprio specifico professionale, sono in grado di supportare il Laboratorio a) a migliorare la propria efficienza senza abdicare dai propri principi professionali, b) a dimostrare come la via tracciata sia quella che porta i maggiori benefici, anche in termini economici, per l’organizzazione sanitaria e per i pazienti. Fidarsi di chi, in maniera scientifica ed indipendente (non condizionato né dall’esigenza di vendere, né da problematiche interne all’organizzazione), è in grado di fornire le evidenze di quanto andate affermando, è una delle vie più potenti per poter far valere la vostra visione nei confronti di chi gestisce l’organizzazione sanitaria.
Un discorso a parte meriterebbe poi l’alleanza con il paziente (su cui ricadono tutti i benefici o i danni derivanti dalle scelte compiute dagli specialisti). E’ evidente l’importanza che essa può assumere nel momento in cui se ne individuassero le modalità concrete di attuazione (magari attraverso il coinvolgimento delle associazioni di pazienti)
.
A qualcuno sarà poi rimasta la curiosità di sapere se esiste una chiave di lettura diversa del grafico in figura 1. Esso rappresenta l’andamento del costo dell’emocromo in relazione al volume di lavoro in alcuni dei Laboratori in cui operiamo. Sono considerati i costi interni al Laboratorio, incluso quelli relativi al personale.
Questa è sicuramente una valida base decisionale per Laboratori commerciali, il cui “prodotto” è effettivamente il risultato dell’esame e che deve quindi essere ottenuto al più basso costo possibile (a parità di qualità).
La stragrande maggioranza dei Laboratori italiani sono però inseriti in strutture sanitarie il cui “prodotto” è la salute del paziente, che deve essere recuperata o mantenuta attraverso un percorso articolato, di cui l’esame di laboratorio è solo un componente. Anche se volessimo restringere la nostra visione al solo aspetto economico, è evidente che esso va valorizzato per l’intero processo e non per una parte di esso. A maggior ragione in quanto l’esame di laboratorio è un componente molto particolare, in grado di condizionare fortemente le altre attività.
Questo ragionamento troppo spesso si arena sulla difficoltà di misurare, con le proprie forze, il risultato del processo, quello che ormai tutti chiamiamo l’outcome. E ritorniamo quindi a quanto detto poco sopra.

L'HTA, una chance per la Sanità

L’attività multidisciplinare di valutazione delle tecnologie sanitarie (Health Technology Assestment –HTA) è una scienza interdisciplinare che integra gli sforzi di una molteplicità di discipline per produrre le informazioni e le evidenze scientifiche necessarie alle decisioni dei policy-makers. Nei paesi sviluppati i rapidi cambiamenti recentemente osservati nei sistemi sanitari, quali l’invecchiamento della popolazione, il rapido sviluppo delle tecnologie e la crescita dei costi hanno mostrato come la ricerca scientifica si riveli sovente non adatta, o non sufficientemente adatta a produrre le informazioni tecniche necessarie ai policy maker, al di fuori dagli aspetti strettamente scientifici, a fornire supporto per le loro decisioni per una rete più complessa di implicazioni sociali, economiche, giuridiche ed etiche.
L’HTA rappresenta il ponte tra scienza e decisione, in quanto fornisce al decisore un insieme sistematico di informazioni di provenienza interdisciplinare, che rendono più consapevole la sua decisione.
L’HTA è sorta ed ha trovato le sue applicazioni più estese nel contesto dei sistemi sanitari nazionali. L’HTA è consistita principalmente nella produzione di valutazioni di efficacia riguardo all’opportunità di introdurre nuove tecnologie o di mantenere in uso tecnologie esistenti.
Lo scopo prevalente era quello di fornire supporto tecnico e scientifico ai soggetti responsabili di assumere decisioni di politica sanitaria. Pur nell’eterogeneità dei modelli organizzativi adottati dai singoli paesi i soggetti incaricati di svolgere tale attività possono essere descritti come tecnostrutture facenti parte della pubblica amministrazione (uffici governativi e authority) che agiscono con l’utilizzo di competenze interne alla struttura, sovente integrate dal ricorso a panel di esperti esterni. Il prodotto della valutazione è codificato in documenti (report) più o meno strutturati che – a secondo dei contesti – forniscono raccomandazioni o impongono comportamenti vincolanti su tutto il territorio nazionale.
Nel descrivere la nascita dell’HTA nei diversi paesi, Battista (2) evidenzia la peculiarità del caso italiano, dove il progetto di una valutazione sistematica ed interdisciplinare della tecnologia non è sorta da agenzie istituzionali o da uffici governativi, ma dalla esperienza diretta delle aziende ospedaliere, dall’attività svolta sul campo all’interno delle aziende da ingegneri clinici, medici di direzione sanitaria ed economisti aziendali.
Tutto ciò ha dato vita ad un nuovo filone di studi nell’ambito dell’HTA: l’Hospital-Based Health Technolgy Assessment (HB-HTA).
Occorre però precisare che la valutazione della tecnologia svolta a livello aziendale (HB-HTA) presenta caratteristiche differenti rispetto alla valutazione svolta a livello paese. Innanzitutto è differente il destinatario della valutazione svolta a livello aziendale rispetto alla valutazione svolta a livello nazionale/regionale. Nel primo caso il destinatario è il vertice aziendale, depositario di una mission differente rispetto a quella assegnata ai vertici politici nazionali e regionali. Esso è chiamato ad assumere decisioni nell’ambito di un sistema di obiettivi che comprende - accanto al conseguimento delle finalità proprie del sistema sanitario - l’orientamento ad obiettivi strategici di sopravvivenza e sviluppo della realtà aziendale, e ad obiettivi economico-finanziari di breve e medio periodo.
Inoltre, ed in conseguenza diretta di quanto sopra, risultano parzialmente differenti – contemporaneamente più ampi e più specifici - gli obiettivi ai quali è finalizzata l’attività di HTA.
L’HB-HTA, infatti, si sostanzia nel supporto a decisioni di introduzione (o mantenimento) di tecnologie nello specifico contesto organizzativo aziendale.
Infine, occorre considerare come in un contesto aziendale, singolarmente considerato, le risorse e le competenze destinabili al processo di HTA risultino giocoforza più scarse di quanto possa accadere in una tecnostruttura nazionale o regionale, e per tanto non appaiono adeguate a supportare processi di valutazione più “ampi” di quelli necessari a livello aziendale e definiti poco sopra.

Il corretto svolgimento del processo decisionale relativo all’introduzione (e al mantenimento) di una tecnologia all’interno dell’azienda sanitaria, dovrebbe prevedere che il soggetto che opera all’interno delle aziende possa attingere per i propri fini ad una adeguata base di conoscenza relativa all’efficacia delle tecnologie. Tale base di conoscenza, in un modello ideale, dovrebbe essere in primo luogo messa a disposizione dal livello centrale, ad esempio attraverso la produzione con proprie strutture di report di HTA (come avviene in molti paese europei) o attraverso la commissione di specifici report ad un network di aziende e professionisti operanti per conto del livello centrale (come proponiamo possa avvenire a livello nazionale).
Con riferimento all’attività di HB-HTA svolte a livello aziendale occorre a questo proposito tenere ben distinti:
1) la partecipazione alla produzione di report/commodity di HTA orientati allo studio dell’efficacia della tecnologia in un generico contesto nazionale/regionale, con valore indicativo o prescrittivo, che rappresenta un compito specifico di chi governa il sistema sanitario e che, nel contesto italiano, possono essere commissionati ad aziende sanitarie di eccellenza (o ad un loro network) mettendo a loro disposizione risorse specifiche per tale scopo;
2) la produzione di report aziendali di HTA, circostanziati ed orientati allo studio dell’efficienza e dell’economicità dell’introduzione tecnologia sulla base di analisi di efficacia già svolti.
Tra i vari settori della medicina nei quali si articola un ospedale, il mondo dei servizi (laboratorio analisi e servizi di radiologia e imaging) rappresentano probabilmente i più pronti ad un proficuo scambio interdisciplinare in ottica HB-HTA.

M.E. Maccarini (Università degli Studi di Pavia)

BIBLIOGRAFIA

1. AMICONI M., MACCARINI M.E., A. FRANCESCONI, L. PELLEGRINI e P. LAGO (pp. 9-14), Health Technology Assessment: a flexible approach? Experiences in Lombardy. In: IJPH, Year 3, vol. 2, n° 2, summer 2005.

2. BATTISTA R.N., Innovation and diffusion of health-related technologies. A conceptual framework. Int J Technol Assess Health Care. 1989;5(2):227-48, Review.

3. CICCHETTI A., FONTANA F., MACCARINI M.E., Hospital-based health tecnology assessment: analisi di 5 casi di studio nel Network Italiano di Health Tecnology Assessment (NI-HTA) (pp. 19-46). In: Tendenze nuove. Materiali di lavoro su sanità e salute della Fondazione Smith Kline, Edizioni Il Mulino, Anno 2006, n° 1, Gennaio-febbraio.

4. CICCHETTI A., FRANCESCONI A., LAGO P., MACCARINI M.E., GUIZZETTI G., ZAMBIANCHI L.; The development of Hospital Based HTA: the experience of five Italian hospitals, 3rd Annual Meeting of Health Technology Assessment International (HTAi)" - Adelaide, South Australia, July 2006.

5. FRANCESCONI A., Innovazione organizzativa e tecnologica in sanità. Il ruolo dell’health technology assessment, FrancoAngeli, Milano, 2007.

6. FRANCESCONI A., GUIZZETTI G., MACCARINI M.E., LAGO P., Strutture e processi per l’Hospital Based HTA: l’esperienza in Italia. In: Clinical Governance, 2008.

7. LAGO P., MACCARINI M.E.; Trasparenza ed efficienza dei mercati nel settore sanitario. In: IL Point of Care Bulletin, Numero 5 anno 3° (p.p. 3).

8. MACCARINI M.E., Il sistema sanitario europeo: solidarietà e sussidiarietà – Capitolo 5 (pp. 133-163). In: L. VIOLINI (a cura di), Sussidiarietà e decentramento, Approfondimenti sulle esperienze europee e sulle politiche regionali in Italia, Guerini e Associati, Milano, 2003.

9. MACCARINI M.E.; Management ed etica delle risorse in un’Azienda Sanitaria (pp.135-142). In: M. PICOZZI (a cura di), Management ed etica delle risorse in sanità, Franco Angeli, Milano, 2007.

10. MACCARINI M.E.; Health Technology Assessment: evoluzione e diffusione in Italia. In: IL Point of Care Bulletin, Numero 4 anno 3° (p.p. 1-2).

11. MACCARINI M.E., AMIGONI M., La valutazione della tecnologia sanitaria e il governo delle tariffe: il tentativo della Commissione Consultiva della Regione Lombardia. In: Clinical Governance, 2008

Solo una questione di soldi?

Chi fa diagnostica in vitro fornisce dati concreti a chi (il Clinico) deve – soprattutto su quelle basi – decidere gli atti medici da compiere. Egli quindi sa ricercare (nel complesso di elementi, umori e strutture del corpo umano) quelle tracce che possono dare evidenza di una situazione patologica.

Fa quindi sorridere la constatazione che un professionista così bravo proprio nel far comprendere ad altri i segni che distinguono la normalità dall’anomalia, sia restio a misurare il suo proprio lavoro (a dargli quindi quell’evidenza che consente di capirne il reale valore). Cioè a raccogliere i dati di base sulla propria attività, analizzarli ed organizzarli in report organici da utilizzare per il miglioramento delle proprie prestazioni.
Certo, misurare costa fatica. Soprattutto se ci si trova a farlo dovendosi inventare il tempo, senza venir meno a tutti i compiti che la conduzione di un Laboratorio comporta.
Quando poi si tratta di organizzarli in forma di “processo” la cosa sembra ulteriormente complicarsi, entrando in una dimensione dove ci si muove a fatica, perché non si ha familiarità con concetti più manageriali che scientifici.
Allora, perché farlo? Non è meglio, più comodo e de-responsabilizzante lasciarlo fare ai “competenti organi aziendali”? Perché un Laboratorio dovrebbe sobbarcarsi il lavoro necessario ad estrarre, verificare ed elaborare i propri dati?
Proviamo a dare qualche risposta.

  1. Nelle Aziende Sanitarie i “competenti organi aziendali” conoscono il Laboratorio – di fatto – solo in base alle dimensioni che loro riescono a registrare. Ovvero in base ai costi, ai ricavi, ai volumi di produzione. Ogni loro elaborazione sarà quindi inquadrata sulla sola dimensione economica.
  2. La negoziazione con i vertici aziendali va fatta su un terreno “comune”, dove si parla di cose che entrambe le parti sono in grado di capire. E’ indubbiamente utile avere una buona documentazione a sostegno delle proprie argomentazioni.
  3. La diagnostica di Laboratorio è una attività complessa, con risvolti e correlazioni che, pur essendo chiari a chi ci opera, sfuggono alla comprensione di chi ne sta fuori. Il Patologo Clinico vive con un senso di frustrazione le semplificazioni che vengono fatte riguardo alla sua attività. E vorrebbe poter trasmettere il senso di questa complessità e quindi le ragioni che portano a determinate decisioni organizzative.
Ma come si fa a descrivere e quindi a trasmettere questa complessità?

La rappresentazione dei processi ci offre una chance in questo senso. Anche restando al solo aspetto economico, una cosa è vedere l’organizzazione suddivisa in blocchi, registrando passivamente ciò che succede in ogni singolo blocco, un’altra è avere la possibilità di studiarne le interrelazioni.

Per capirci, questo fa la differenza fra a) limitarsi a considerare gli effetti sui costi del settore dell’introduzione di un determinato sistema analitico, oppure b) poterne valutare anche l’impatto sul complesso delle operazioni che da esso sono influenzate.

Ma l’analisi dei processi ci consente di fare di più. Una volta definite le relazioni che intercorrono fra gli elementi del processo, possiamo agevolmente analizzarli da molti e differenti punti di vista. Possiamo quindi sfuggire a quell’appiattimento sulla sola dimensione economica che molti trovano penalizzante per la valenza scientifica della disciplina.

 Possiamo cioè parlare di Qualità dei Processi, ponendo nella giusta considerazione gli aspetti più propriamente professionali dell’attività di Laboratorio.

Nella mia mente, gli strumenti di controllo gestionale devono tendere ad una visione complessiva (si potrebbe dire “olistica”, usando un termine alla moda) delle dimensioni organizzative di una struttura articolata qual è il Laboratorio. E l’insieme di queste dimensioni ci deve dare una misurazione della qualità complessiva del lavoro che in esso viene svolto.

Per raggiungere questo non facile obiettivo bisogna puntare alla valutazione, sia singolarmente che nell’insieme, di queste fondamentali grandezze:

1. Appropriatezza ovvero fare le cose giuste. Nell’accezione data a questo obiettivo di performance si intende normalmente porre l’attenzione sulla flessibilità, cioè la capacità di un produttore di cambiare velocemente per soddisfare le mutate esigenze del mercato. Ovviamente questa caratteristica esiste ed è importante anche all’interno della diagnostica. Ma essa, come tutto il mondo sanitario, ha delle caratteristiche peculiari che derivano dall’essere un servizio al cittadino. Deve pertanto farsi carico anche del risultato finale (outcome) e quindi dell’appropriatezza di quanto le viene richiesto.

2. Qualità ovvero fare le cose bene. Il Laboratorio è da tempo abituato al concetto di Controllo di Qualità e molti metodi sono stati proposti per misurare la qualità della produzione. Per esempio, l’Institute for Quality in Laboratory Medicine ha fra i suoi obiettivi quello di “sviluppare e promuovere i migliori indicatori per misurare la qualità dei servizi di Laboratorio”. L’approccio è, correttamente, quello di misurare la qualità nelle differenti fasi del processo, a partire dalla richiesta fino all’interpretazione del referto.

3. Efficienza ovvero fare velocemente le cose giuste. Il concetto di efficienza può essere tradotto nella pratica quotidiana come la più veloce modalità di lavorazione di un elemento con il minimo scarto. Entrano quindi in gioco due indicatori:

a. Il tempo di attraversamento (TAT), che può essere riferito sia all’intero processo che ai singoli step dello stesso.

b. La percentuale di elementi capaci di essere lavorati correttamente al primo tentativo, senza scostamenti dalla procedura definita. Se nella definizione sopra riportata intendiamo come scarto ogni operazione in grado di produrre uno spreco di risorse, vediamo come, nella determinazione dell’efficienza di un processo, sia importante non solo la rilevazione degli errori (che compete soprattutto alla dimensione della qualità) ma anche di tutte le operazioni non correttamente eseguite.

Consideriamo quindi inefficienze le ripetizioni, le attese ed i ritardi, gli interventi correttivi, le operazioni di controllo e di calibrazione dei sistemi che eccedono ciò che possiamo considerare necessario.

4. Affidabilità / credibilità ovvero fare in tempo le cose richieste. Nella sua definizione questo elemento della performance mette l’accento sulla capacità del fornitore di soddisfare le reali esigenze del cliente. Quindi sulla sua capacità, da un lato, di negoziare con i suoi clienti le modalità di fornitura del servizio e, dall’altro, di strutturare la propria organizzazione per garantire nel tempo queste modalità. L’indicatore migliore per misurare questa grandezza è rappresentato dal TAT ovvero dalla differenza (in termini di tempo) fra il TAT complessivo di processo - secondo la definizione brain-to-brain di Lundberg - e quello realmente utile per il clinico. Un TAT superiore, ma anche ingiustificatamente inferiore a quello utile rappresenta un decadimento nella performance dei processi del Laboratorio.

In altre parole questo elemento della performance ci dice che il Laboratorio deve essere in grado di soddisfare le esigenze di rapidità di risposta in tutte le occasioni necessarie. Ma anche che non deve perseguire una diminuzione generalizzata dei tempi di refertazione.

Ci dice anche che uno dei compiti del Laboratorio è quello di concordare con i clinici i giusti tempi di risposta nelle differenti condizioni.

5. Costi ovvero fare le cose economicamente. Se facciamo una distinzione fra spesa (genericamente intesa come insieme delle uscite del Laboratorio, grossolanamente suddivise in capitoli o centri di costo) e costi di processo (in cui possiamo valutare l’apporto di ciascun elemento del processo) ci rendiamo conto che la conoscenza dei costi rappresenta una condizione essenziale per il governo dell’organizzazione.

In più, il costo rappresenta un indicatore sensibile dell’efficienza dei processi; quando un costo sale o è significativamente più alto rispetto a situazioni comparabili, si può stare certi che, da qualche parte lungo il processo, si sono generate delle inefficienze.

Da ultimo, il costo è un indicatore immediatamente comprensibile ed accessibile al più vasto mondo dei portatori di interesse (stakeholders). Chi ha responsabilità direzionali deve quindi poter conoscere e documentare questo aspetto in relazione alle attività ed agli obiettivi dell’organizzazione.

Agli indicatori di costo si chiede dunque di

  • considerare correttamente le componenti di costo che incidono su ciascun processo, per avere il loro costo reale.
  • essere frazionabili nelle loro componenti, in modo da individuare dove e come si determinano i costi finali.
La buona gestione di un Laboratorio non è quindi solo una questione di soldi. Solo l’insieme dei dati – oggettivi e misurabili – che descrivono l’attività di un Laboratorio è in grado di dirci se esso opera in maniera coerente con quanto gli è richiesto.

Mi rendo conto che oggi è estremamente difficile andare a misurare tutte le grandezze sopra elencate. Lavorando quotidianamente insieme a voi su questo argomento, so bene quali siano le difficoltà a raccogliere dati corretti anche sulle dimensioni più ovvie (quali, ad esempio, i volumi reali di produzione o il numero di operatori). Infatti anche il progetto che dirigo si limita attualmente a valutare i dati di costo e poco altro.

Ma credo che occorra uno sforzo per mettersi nelle condizioni di poter produrre più dati significativi a livello gestionale.

Dobbiamo tutti ricordarci che non misurare le proprie performance non serve a difendere la propria specificità. Al contrario lascia il campo libero all’appiattimento sulla sola dimensione economica.